Bottom Up! si racconta

La call di Bottom Up! si è appena conclusa, la giuria è concentrata nella valutazione di ognuna delle 48 proposte presentate e noi non possiamo fare altro che restare in trepidante attesa della presentazione dei progetti selezionati, in programma il 6 febbraio.

Per ingannare il tempo, eccoti l’intervista a cura de Il Giornale dell’Architettura, il nuovo media partner del festival, ai due curatori Maurizio Cilli e Stefano Mirti: la nascita dell’idea, la doppia natura di Bottom Up! e l’imprevedibilità dell’esito finale sono solo alcune delle questioni tutt’altro che scontate affrontate.

 

Come nasce l’idea? Se ci è concessa la provocazione, sembra piuttosto allineata a questi tempi di populismo dominante…

 

SM: L’idea nasce da un confronto tra di noi. Al netto delle recenti dinamiche legate al populismo, sono temi su cui ci confrontiamo e lavoriamo (singolarmente o assieme) da anni. «Abitare le OGR» (una delle azioni del collettivo «Città svelata» di cui faceva parte Maurizio) portò diecimila persone nelle ex Officine Grandi Riparazioni di Torino salvandole dalla demolizione. Era il 1996, quasi 25 anni fa. «Torino Geodesign» (un meccanismo non dissimile, applicato al design) è un progetto del 2008, e così via… La relazione tra il sapere tecnico e professionale e i processi di partecipazione diretta, è un tema in questo momento importante. Declinato in molte maniere diverse, con esiti differenziati. Una delle cose più interessanti emersa dai processi di cosiddetta co-creazione messi in atto per Matera Capitale europea della cultura 2019 può essere riassunta in una frase: “Le idee vengono da tutti, le competenze vengono dai professionisti”. La nostra sfida è quella di progettare un contenitore dove “tutti” riescano a intersecare e lavorare in maniera proficua con i “professionisti”. È un incrocio virtuoso. Forse, una chiave per superare lo stallo della sterile contrapposizione “top down” vs “bottom up”.

MC: Grazie al sostegno di bandi pubblici avviati attraverso le risorse di fondazioni private, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di molti progetti di rigenerazione rivolti ai territori urbani più fragili. Considerati i bilanci in affanno delle pubbliche amministrazioni simili iniziative hanno rappresentato un proficuo contributo ai programmi di welfare pubblico. Purtroppo tali progetti, dovendo necessariamente corrispondere alla brevità dei mandati amministrativi, non sono sempre riusciti a sostenere processi di medio-lungo termine. Sono rari i casi in cui si è assistito al nascere di soggetti capaci di costruire le condizioni necessarie per accompagnare nel tempo i progetti e molto raramente sono stati in grado di costruire solide forme d’impresa. In questo senso, le pratiche di rigenerazione urbana vivono una fase di delicata transizione. Si tratta di cammini difficili, spesso minati da un’attitudine di visione della città confinata alle forme di rappresentazione elitaria dei grandi progetti e dell’eventismo. Il nostro è un esperimento molto ambizioso, dagli esiti per nulla scontati, che ci piace definire generativo. Ricercare le forme sociali capaci di un reale superamento dell’ingenuità dei processi partecipativi, dalla natura scadente ed improvvisata, significa misurarsi con i reali desideri dei cittadini. Il nostro invito è d’interpretare «Bottom Up!» come un primo osservatorio in ascolto sulla città, individuare le comunità che intendono prendere voce ed assumersi la responsabilità di costruire tavoli di committenza dal basso, robusti ed attrezzati per accompagnare nel tempo i processi di trasformazione. Un percorso che in molti casi può contribuire ad affinare ed offrire un maggior grado di apertura delle procedure urbanistiche e scongiurare facili costruzioni di consenso politico.

 

Paradossalmente, l’obiettivo di «Bottom Up!» è forte e debole al contempo: da un lato, intende innescare ed accompagnare processi che si sperano virtuosi; dall’altro, l’oggetto stesso del festival è lasciato ad iniziative terze.

 

SM: In effetti, esiste questa doppia natura. Possiamo dire che in questo momento, l’unico modo per essere “forti” è quello di lavorare su sistemi “morbidi”, “deboli”. Da un lato abbiamo l’ambizione tipica del moderno. Un progetto che prende l’intera città, che mette in moto una grande quantità di relazioni ed energie più o meno latenti. Nel contempo, usiamo un’attitudine “postmoderna”. Usiamo il gioco, la performance, che a volte sono immateriali, temporanee, effimere. Una delle passioni che ci accomuna è quella riferita ai sistemi generativi. Mozart o Beethoven scrivono una partitura che poi il musicista segue fedelmente. John Cage non scrive una partitura bensì una serie d’istruzioni, seguendo le quali il musicista arriva ogni volta a un risultato diverso. Questo ci sembra interessante, in grado di affrontare le complessità e le difficoltà del mondo contemporaneo. In questo sistema, il curatore non è più una figura che sceglie il meglio e lo presenta al visitatore. Il curatore diventa un attivatore di energie diverse che vengono sviluppate e portate avanti da soggetti terzi: una grande rete di soggetti e di relazioni diverse. Il nostro sforzo è quello di generare sistemi, non oggetti. L’oggetto, il manufatto fisico può esserci ma è una derivata prima o seconda di un sistema di relazioni tra persone. Centrale in tutto il processo è il capitale umano. Se si lavora in questo modo si può fare moltissimo. Nei mesi passati abbiamo raccolto una grande quantità di casi-studio. Luoghi e condizioni molto diverse, dove però si ritrova questa attitudine. Ovviamente, noi non abbiamo inventato nulla. Semplicemente abbiamo dedicato grande tempo a documentare una serie di esperienze analoghe, cercando d’immaginare la maniera migliore per trapiantarle a Torino.

MC: Nei primi mesi di lavoro per il lancio del festival il tavolo di coordinamento della Fondazione per l’architettura ha svolto un prezioso lavoro d’incontro, diffusione e consultazione di tutti i principali enti con finalità sociali e culturali del territorio. Il risultato sorprendente, senza precedenti, è che tutti i soggetti coinvolti hanno manifestato grande interesse verso l’attitudine e lo spirito di apertura di «Bottom Up!». Con alcuni di questi si è avviato un percorso di collaborazione attraverso il quale, a vario titolo, progetteremo delle reali forme di collaborazione e sostegno generale del festival e dei suoi progetti. L’ampia partecipazione di partner culturali offre l’occasione straordinaria di costruire le fondamenta di una rete collaborativa. Immaginiamo una trama capillare di relazioni sociali attraverso la quali diffondere contenuti e rilanciare le campagne di crowdfunding con le quali le comunità selezionate raccoglieranno le prime risorse per avviare i progetti. «Bottom Up!» lancia una sfida che consente di tracciare le traiettorie possibili di una collaborazione condivisa sui temi costitutivi della cultura della città. Un dispositivo-motore dalle potenzialità che dipendono direttamente dalla risposta delle energie culturali della città e dalla volontà dei cittadini di prendere parte a un grande gioco urbano.

 

Le incognite, dal punto di vista degli esiti finali, ovvero della trasformazione urbana auspicata, sono indubbiamente alte: il festival si concluderà laureando le idee migliori, ma la loro concretizzazione sarà un altro paio di maniche…

 

SM: L’intero festival è un grande esperimento. Questo elemento d’impredicibilità ed imprevedibilità è per noi fondamentale per la buona riuscita del tutto. Il festival dove sai già tutto, ancora prima di andarci, a noi sembra non così interessante. A nostro avviso questo elemento: “ma saranno poi capaci?”, “ma funziona per davvero?” è fondamentale per sollecitare l’interesse dei (cosiddetti) stake-holders, dei partecipanti e dei visitatori. Se tu ti metti a camminare su un filo teso, a diversi metri dal suolo, questo cattura l’attenzione. Se i due curatori si mettono a raccogliere figurine e le appiccicano su un album elegante, questo è un po’ un déjà vu, non così necessario.

MC: Il rischio esiste, tuttavia è possibile considerare altri aspetti molto importanti. Crediamo in ogni caso prezioso raccogliere gli esiti di questa consultazione pubblica, interpretare i dati a conclusione di questa esperienza potrà, in ogni caso, offrire utili spunti di riflessione. Non trascurabile considerare il ruolo d’interpreti a cui sono chiamati per l’occasione gli architetti. La nostra disciplina vive di riflesso uno stato di precarietà dato dal permanere di un’incertezza generale delle politiche sul territorio. Gli architetti e gli urbanisti, in questa fase storica, devono prendere voce e manifestare un profondo senso di responsabilità civile nei confronti della qualità ambientale. Più di altre professioni, la natura fluida delle nostre competenze, può rivelarsi decisiva nel coordinare tavoli di lavoro pluridisciplinare ed affiancare le discipline delle scienze sociali nella lettura della crescente complessità dei sistemi urbani, intorno ai quali si organizzano la gran parte dei viventi. Inoltre consideriamo non trascurabile il fatto che questo festival intende favorire percorsi di costruzione di valore urbano diversi e non direttamente dipendenti dalle iniziative di speculazione e dei fattori di rendita fondiaria. I desideri e la competizione intellettuale sui progetti delle comunità di cittadini che «Bottom Up!» sarà in grado d’intercettare ed accompagnare rappresentano una grande risorsa in termini di valore e senso di appartenenza per la nostra città.

 

«Bottom Up!» è stato candidato al bando «Festival di Architettura» promosso dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e periferie urbane del MiBAC: vi aspettavate un esito diverso? Forse non siamo pronti per un concetto di curatela non autoriale?

 

SM: Non avendo mai partecipato a bandi di questo tipo, non avevamo particolari aspettative. Sicuramente il bando è stata mossa eccellente perché ha messo in moto la macchina che ci porta al festival. «Bottom Up!» non è arrivato alla selezione finale a causa di un vizio di forma burocratico nel momento della consegna, quindi non sappiamo se il nostro concetto curatoriale sia in sintonia con i desiderata ministeriali. Tuttavia, a noi sembra che questa sia una proposta molto autoriale. Lavorare sui processi e non sui prodotti non vuole dire perdere l’autorialità, semplicemente significa lavorare da una prospettiva altra. È quella tensione che ritrovi in molti dei progetti raccolti per i casi-studio: dove gli autori sono comunque sempre presenti (e hanno sempre una faccia e un nome). Semplicemente, esprimono la propria autorialità in maniera diversa rispetto ai modi più consueti.

MC: Condivido queste considerazioni di Stefano. Ciò che in termini di significato teorico e culturale potrà offrire l’esperienza di «Bottom Up!» è proprio una precisa attitudine di ricerca e apertura dello sguardo nei confronti della città contemporanea. In assenza di codici d’interpretazione certa, la nostra proposta è un invito a considerare decisivo il ruolo dell’osservazione puntuale del territorio diffuso delle aree metropolitane. Raccogliere i desideri più intimi e radicati nei bisogni dei cittadini, invitarli a costituirsi in comunità responsabili, attivarsi in tavoli di committenza dal basso nei quali coinvolgere architetti, urbanisti, artisti e collettivi di attivisti rappresenta una direzione culturale molto precisa. Queste energie generative possono offrire la chiave d’interpretazione poetica e simbolica di contesti e forme d’uso del bene comune e degli spazi pubblici che solitamente sfuggono l’interesse della pianificazione tradizionale. In questi processi è possibile sperimentare e verificare l’efficacia di procedure urbanistiche inedite, transitorie e flessibili. Enzimi decisivi con i quali sperimentare anche forme di autodeterminazione da parte dei cittadini, capaci di favorire il superamento dell’inerzia di procedure amministrative che hanno segnato il passo da tempo. Secondo questi principi, il nostro interesse non è rivendicare l’autorialità di «Bottom Up!», quanto richiamare il significato radicale dei suoi contenuti.

22 Gennaio